IRAN, ISRAELE E LIBANO: UNA PARTITA DA DENTRO O FUORI

Andrea Alcamisi
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Dal Medio Oriente venti di guerra sul mondo

Che l’Asse della Resistenza – variazione terzomondista del noto suggello della Ditta Bush – possa dispiegare, senza più alcun velamento spionistico, una violenta strategia di vendetta in risposta agli omicidi politici di mano israeliana è un fatto certo.

Tuttavia, è opportuno chiedersi quanto Teheran e Beirut siano disposti a vocarsi al martirio. Perché, l’inasprimento della tensione fra Libano, Israele ed Iran farebbe risuonare quell’analisi marxiana della storia come un estenuante raddoppio del passato.

E da come il rapporto tra questi tre Stati, prossimi ad una fase belligerante acuta, si va sempre strutturando in queste ore, pone Teheran e Beirut nella condizione di rivivere un salto nel tempo, foriero nelle circostanze presenti, però, di un irreversibile declino delle condizioni sociali ed economiche dei propri Paesi, con la possibilità, non molto lontana, di delineare uno scenario politico che veda le strutture di potere delegittimate seriamente, Hezbollah e Guida Suprema.

Non è, infatti, la prima volta che l’Iran dimostra una falla preoccupante negli apparati di sicurezza interna, tale da far apparire davvero farsesca, poi, la reazione post-eventum, e che Israele, in spregio alle leggi internazionali, viola lo spazio fisico di uno Stato, scambiando il delitto per un metodo legittimo di tutela degli interessi nazionali.

L’assassinio di Haneyeh, il capo dell’ufficio politico di Hamas, in terra iraniana, segue una lunga teoria di omicidi politici eccellenti tra scienziati nucleari e uomini chiave delle Guardie Rivoluzionarie.

Sulla sponda mediterranea, invece, Nasrallah, il leader libanese di Hezbollah, al di là degli orpelli retorici per l’uccisione – anche questa firmata da Israele – del numero due della milizia sciita filo-iraniana, Fouad Shukr, proverà a ripetere le imprese della guerra israelo-libanese del 2006, volendo trascinare un Paese spaccato da questioni politiche irrisolte – vedi, per citare un esempio, il problema della convivenza tra cristiani e musulmani – e dilaniato da una vertiginosa crisi istituzionale – il governo è, infatti, dimissionario – verso una apparente coesione contro il nemico esterno.  

La potenza di fuoco dell’arsenale del duo sciita probabilmente riuscirà a penetrare le difese israeliane. Gli analisti, in tal senso, non mettono in dubbio l’aggiornamento dell’apparato bellico del fronte della resistenza antisionista.

Tuttavia, il punto interessante è un altro: non tanto, forse, la qualità della distruzione di obiettivi militari israeliani – il dubbio è d’obbligo in questa sede, giacché la ritorsione sciita contro i civili è da ipotizzare – quanto piuttosto la tenuta politica e sociale di Teheran e di Beirut, tale da sopravvivere ad uno scontro esiziale con Israele.

Difatti, analizzando le vicende politiche dei due Paesi, una riflessione minima va illustrata.

La sconfitta di Hezbollah inaugurerebbe un teatro geopolitico non molto dissimile dalla crisi siriana innescata dal regime di Assad. Un’ulteriore polveriera che Russia, Turchia e Cina, strateghi-ombra della scena mediorientale, vorrebbero evitare per non compromettere i lauti affari che concludono in armi, in mezzi militari e in componenti elettroniche.

L’Iran, fresco della recente elezione del presidente della Repubblica Islamica, Masoud Pezeshkian, innescherebbe una crisi di governo pericolosa in una Paese che attende l’ultimo passo falso delle gerarchie teocratiche per scatenare la controrivoluzione.

Ricapitolando, la strategia israeliana è chiara: trascinare la roccaforte sciita in una guerra totale logorante, con lo scopo di agevolarne il collasso politico.

Intanto, gli U.S.A. stanno a guardare, emblema della confusione di un Presidente che si sta impegnando alacremente per consegnare gli Stati Uniti alla destra più guerrafondaia di sempre.  

Pervicacemente asserragliati nella difesa ad oltranza di Israele, gli americani stanno annientando sé stessi, scompaginando la propria credibilità di mediatori in Medio-Oriente e favorendo l’ascesa degli Stati del Golfo Persico, come forze in grado di stabilizzare i rapporti in un’area ove si incrociano sempre di più gli interessi globali.

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