LA CONVENTION DEMOCRATICA DI CHICAGO

Andrea Alcamisi
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UNA SAGRA PIUTTOSTO CHE UN CONFRONTO DI IDEE

Poche idee e molta scenografia possono essere la sintesi della prova muscolare del Partito Democratico alla Convention di Chicago, l’evento estivo più atteso nel panorama statunitense per conoscere l’ufficialità della candidatura della vicepresidente Harris alla corsa presidenziale.

Nello stile kitsch della comunicazione bipartisan americana, momenti del genere manifestano una natura apertamente chimerica, un po’ per ricordare agli astanti, come se convocati ad una lunga sessione di terapia di gruppo, che gioire e sperare fanno bene all’umore e un po’ per spingere, sotto il tappeto della gaiezza festaiola, i patimenti, tali da trasformare la festa in una tragedia.

Tra birre, palloncini e concerti si è perso il senso ultimo del raduno democratico, espletato il compito di nominare la candidata della comunità: affermare con nettezza che cosa voglia fare del proprio destino una delle democrazie più grandi del mondo.

Da queste colonne, infatti, si è già espressa la tesi che il prossimo Presidente degli Stati Uniti d’America sarà eletto da chi sarà più emotivamente coinvolto nella comprensione del ruolo statunitense nella questione palestinese del post Biden.

Trump ha capito bene questo ingranaggio, proponendosi fin da subito come ago della bilancia di una mediazione con la macelleria israeliana, pur di macinare consensi in una ottica esclusivamente nazionalista aperta alla salvaguardia, più che della pace in Medio Oriente, del capitale americano sperperato in conflitti che generano pochi profitti, se quest’ultimi confrontati con le famose operazioni di esportazione del modello democratico qui e lì nel vasto impero dell’Occidente ormai periclitante.

Di converso, l’adunanza democratica tutt’al più ha dimostrato di avere la forza di una sagra paesana – e questo in ossequio alle mode delle orde trumpiane – e di aver tramutato la politica estera in un solingo convitato di pietra, espungendo dal dibattito il problema della guerra.  

Non basta, perciò, aspirare soltanto ad una realistica cessazione di ogni atto belligerante negli scenari dove U.S.A. ed alleati lanciano segnali di potenza ai nemici dei loro mercati. Urge, per gli Stati Uniti, piuttosto definire una visione geopolitica che superi la logica del protettorato, un meccanismo che ha generato più sottosviluppo e corruzione che democrazia, nelle aree dove esso è attecchito – si veda il caso dell’Afghanistan, per esempio – e che affronti una società mondiale multipolare con una strategia non più costruita intorno alla vetusta ansia egemonica, ma intorno alla cooperazione.

Se l’agenda estera ha schiacciato Biden, è da qui, invece, che gli Stati Uniti devono ripartire per risolvere anche le forti contradizioni sociali interne. Il giocattolo del sogno americano si è rotto da tempo, infatti.

Se ne sono accorti proprio gli americani, quelli del ceto medio, ormai ridotti a larve da un portafoglio che non riesce a tenere il passo con i consumi.

Se ne è accorto chi non può più permettersi una modesta casa.

Se ne sono accorti tutti, quando George Floyd, prima di spirare, disse: «I can’t breathe» (ndr. Non riesco a respirare).

Appunto, gli Stati Uniti d’America rappresentano oggi un Paese che non respira più, ammorbato dal torbido inquinamento che ha inclinato le sue istituzioni politiche sempre più verso una concezione autocratica del potere.

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