Perché li chiamano “invisibili”?
Sono più di trentamila, soltanto nell’Agro Pontino, centinaia di migliaia in tutta Italia, lavorano sotto il sole fino a 14 ore al giorno, per pochi euro, senza contratto, senza diritti, stretti nella morsa del caporalato che assicura alle imprese agricole un costo del lavoro “competitivo” taglieggiando i salari dei braccianti “irregolari” per il trasporto, gli affitti e gli altri servizi. Costringendoli a drogarsi per sostenere la fatica di un lavoro bestiale, come nel ‘500 facevano i conquistadores europei con gli Indios nelle miniere del Sud America.
Uno di questi braccianti, Satnam Singh, un giovane indiano di 31 anni che lavorava con la moglie a raccogliere frutta, ferito da un macchinario che gli ha fatto saltare un braccio, è stato “buttato via”, scaricato da un furgone davanti casa con il braccio dentro un cestello di frutta, senza cellulare perché non chiamasse aiuto, ed è morto dopo due giorni di sofferenze atroci.
Non lo avevano portato in ospedale perché non si scoprisse che era “irregolare”, l’azienda del datore di lavoro “ne sarebbe stata danneggiata”.
È una storia che ci ricorda quella di Adnan Siddique, il giovane pakistano ucciso a coltellate dal racket nella nostra città, perché aveva denunciato gli sfruttatori. I killer sono stati condannati dopo il processo, ma non abbiamo notizie delle aziende a cui i caporali vendevano la “manodopera”, carne da macello di uno sfruttamento che non si può definire che schiavismo, qui, nel cuore dell’Occidente sviluppato e civile, nella patria del diritto e dei diritti.
La globalizzazione dello sfruttamento selvaggio del lavoro ci raggiunge dovunque: i nostri frigoriferi sono pieni della frutta e degli ortaggi raccolti dagli schiavi della nostra civiltà, il sugo che condisce le nostre pizze e la nostra pasta si fa con i pomodori raccolti dalle loro mani, fino a quando rimangono vivi, trattati peggio degli animali.
Non possiamo ignorarlo.
La società del mercato globale collega diversi soggetti, individuali e collettivi. I consumatori, anello terminale ma decisivo della catena produttiva, dovrebbero potere scegliere i prodotti da comprare conoscendone la provenienza non soltanto geografica, ma anche la piena legalità dei contratti nelle aziende che li lavorano, che andrebbero certificate, così come si fa per le condizioni igieniche e gli impianti.
Perché si possono controllare impianti e condizioni igieniche e non, prima di tutto, la sicurezza e la regolarità delle persone che lavorano, il rispetto dei loro diritti e della loro dignità di esseri umani?
Un Paese non può considerarsi civile se non garantisce questo, un Paese come l’Italia, “Repubblica democratica fondata sul lavoro”, culla della cristianità, patrimonio della cultura di tutti i tempi, se non comincia a vergognarsi efficacemente, senza retorica, della barbarie di questa moderna schiavitù. Se non colpisce, senza se e senza ma, gli imprenditori che si servono del lavoro nero, i caporali che lo alimentano, tutti gli anelli della catena dello sfruttamento. Nessuno può sottrarsi a questo dovere civile, prima ancora che morale.
Quante vertenze sindacali sono state avviate contro questi fenomeni? Quante denunce? Quante indagini delle forze dell’ordine?
Non basta rilevare che non ci sono ispettori del lavoro in numero sufficiente al controllo del territorio, o, peggio, giustificare le imprese “costrette” ad una competitività che si gioca tutta sulla compressione del costo del lavoro, come facevano i latifondisti e i gabelloti nelle terre siciliane fino al secolo scorso.
Nessuno può sentirsi libero in un Paese che tollera la schiavitù, né possiamo sentirci sinceramente cristiani se non facciamo qualcosa anche noi per contrastarla.
Non è un problema secondario in una società democratica, e non riguarda solo “gli stranieri”. Riguarda l’autenticità del nostro essere umani, ogni giorno, di fronte alla nostra coscienza, alla nostra libertà, se ci teniamo veramente.
La politica, ma anche la società, dovrebbero ripartire da qui per rigenerarsi: da come il rispetto della dignità delle persone si coniuga con l’economia, il lavoro, l’abitare nelle nostre città, l’essere o no comunità piuttosto che condomini di solitudini anonime e inconsapevoli.
Non vale la scusa che questi sono grandi problemi, irrisolvibili da parte nostra. Invece sono vicinissimi a noi, intrecciati nella nostra quotidianità. Basterebbe cominciare smettendo di fare finta di non vederli.