L’unto del Signore è tornato, ma i Democratici non partecipano alla festa

Andrea Alcamisi
Andrea Alcamisi 292 Views
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L’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti d’America è stata salutata dalle correnti suprematiste evangeliche come l’avvento di un piano divino atto a purificare la società globale dagli eccessi del modernismo.

Può darsi che tempi così rabbuiati celino, nell’oscurità dei segni, risvolti rivelatori ad una parte dell’umanità palpata dal dono divinatorio; tuttavia, l’arte esegetica è cosa troppo nobile nei fini che si propone, tale da essere coinvolta nei pasticci umani.

Toni apocalittici a parte, perciò, e anche con buona pace dei commentatori che non vanno proprio in solluccheri al cospetto dell’unto d’America del Signore, occorre leggere e capire con pazienza educativa i dati, offerti dallo spoglio elettorale, per provare a spiegare le ragioni di una sconfitta.

Con il presupposto, però, che la tarantella estiva della scelta del candidato democratico, che preoccupò gran parte delle riflessioni politologiche, non paghi, questa volta, il solito dazio imposto nelle discussioni post eventum: per essere del tutto sinceri, al contrario, la leadership democratica già aveva mostrato i suoi piedi d’argilla, ben prima che si pervenisse al cuore della campagna elettorale.

La consultazione dei dati è, appunto, chiarificatrice e conferma il paradosso di una vittoria scontata e che, invece, poteva essere capovolta se soltanto il Partito Democratico avesse raccolto e rappresentato gli umori popolari.

Dicevamo, i dati nazionali. Tra gli issues – i temi politici – che hanno costituito la propaganda bipartisan, si osservano, al vertice, lo stato dell’economia (39%), l’immigrazione (20%), il diritto all’aborto (11%), la sanità (8%) e la questione climatica (7%).

Da ciò si comprende quanto fosse sentita fortemente dagli elettori l’insoddisfazione per la situazione economica lasciata dall’amministrazione Biden.

Forse la strategia democratica, in tale settore, avrebbe dovuto osare di più, rilanciando il potere d’acquisto della working class, erosa da un fisco sempre più accomodante verso i plutocrati. È certo, però, che il trumpismo non darà quelle garanzie di protezione sociale, così abilmente propugnate, alle classi sfruttate.

Le congratulazioni pubbliche di Elon Musk, proprietario di X e grande sponsor del tycoon, prospettano non solo un fiancheggiamento verso una politica economica servizievole nei confronti del capitalismo, ma anche l’ausilio di una tecnologia che va sempre più configurandosi come il braccio armato del capitale, a colpi di algoritmi volti a plasmare un consumatore sempre più povero e asservito alla disinformazione digitale.

Neppure smentiscono così le percentuali che definiscono l’elettorato sull’appartenenza territoriale. Le periferie (46%) e le aree rurali (62 %) del Paese hanno preferito il conservatorismo assoluto di Trump, luoghi dove si riscontrano tradizionalmente disuguaglianze ed isolamento sociale.

Una tendenza quest’ultima che, al riparo da una lettura per parallelismi, trova, però, un indirizzo comune anche in Europa, dove i programmi xenofobi e protezionistici fanno presa sull’elettorato escluso dal progresso e dalla rivoluzione tecnologica.

E così è sbarcato anche il metus hostilis, quella paura profondamente irrazionale che strumentalmente, invece, riesce a compattare le classi sociali, generalmente ostili in tempi ordinari, di fronte alle crisi di sistema. Come i Romani nei riguardi dell’impeto punico, così il sogno americano ridottosi ad un incubo per le comunità straniere.

Difatti, volendo suggerire anche una lettura intersezionale del voto statunitense, la candidata Harris, se avesse insistito di più sulla questione della redistribuzione della ricchezza, svincolandola da un approccio troppo indulgente verso l’orientamento etnico, avrebbe fin da subito appalesato l’inganno della retorica trumpista tutta tesa a dimostrare che la concorrenza della manodopera straniera sia causa prima del crollo interno dei salari. 

All’orizzonte già si staglia una rinnovata guerra commerciale contro i mercati cinesi, dai quali gli U.S.A. largamente dipendono, mentre si mormora una inflazione ancora più violenta di quella già in atto.

Mentre si stanno concludendo le operazioni di spoglio, il Partito Democratico affronta i suoi fantasmi, evocati da una strategia scriteriata di inseguimento dell’avversario. Senza mai mordere sul serio la complessità dei temi, i Democratici hanno favorito che la tirannia del denaro e l’imperio dei mercati narcotizzassero lo slancio popolare.

Tutto ciò ha permesso ai vaneggiamenti e agli sproloqui di Trump di incancrenire le coscienze. I vari tribuni della plebe, i Clinton, i Kennedy, gli Obama, registi manifesti di una pellicola decadente già recensita in altri scenari di lotta politica, sapranno fare un passo indietro, avendo spalancato le porte delle istituzioni americane ad un imperialismo di ritorno senza precedenti?

Il quesito non vuole essere retorico. The trumpet shall sound, nota un framezzo del Messiah di G. F. Händel, perché si aspetti la resurrezione di una generazione politica più predisposta a mettere in discussione scelte di partito non più sostenibili.

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