Il Consiglio Comunale è l’istituzione in cui si esprime la sovranità popolare nello spazio della città, rappresenta la capacità di programmare, indirizzare e controllare le scelte fondamentali che determinano la qualità della vita cittadina, e, fatto non secondario, offre a chi vi opera l’opportunità di formarsi un’esperienza istituzionale concreta, iscritta nell’orizzonte del bene della propria comunità.
In altre parole, è il primo livello in cui si selezionano e si formano le classi dirigenti, il piano istituzionale più vicino alla vita quotidiana delle persone, importantissimo per una democrazia autentica, non soltanto formale, non puramente “delegata”, ma vissuta nella prossimità efficace tra governanti e governati.
Nelle ultime elezioni per il Consiglio Comunale di Caltanissetta questo impianto di base della democrazia è stato sottoposto a pressioni e a torsioni convergenti. 454 canditati, 19 liste e simboli diversi, in maggioranza non riferibili ai soggetti politici conosciuti, i partiti o i movimenti che sono in Parlamento: un fenomeno senza precedenti per dimensioni quantitative, che avrebbe potuto fare sperare in una ri-scoperta della democrazia partecipata, in un desiderio di impegno civile e di riscatto delle istituzioni, finalmente ri-avvicinate ai cittadini, desiderosi di riappropriarsi responsabilmente della propria sovranità.
Ma qual è stato il risultato della “carica dei 454” verso Palazzo del Carmine? Il 50% dei candidati, 230 per la precisione, ha raccolto meno di 30 voti di preferenza, se si alza l’asticella a 50 voti si arriva a 274; soltanto in 180 hanno superato la soglia dei 50 voti e soltanto 93 la soglia dei 100.
Delle 19 liste, 8 non hanno superato il quorum del 5% che la legge elettorale prescrive per concorrere all’assegnazione dei seggi in Consiglio comunale. Questo significa che i 6.717 voti che hanno raccolto, espressi dai cittadini, sono risultati totalmente inutili per eleggere consiglieri e sono serviti soltanto all’elezione dei candidati Sindaci ad essi collegati, vanificando quindi oltre il 20% dei voti dei nisseni (su circa 30.000 voti validi) per lo scopo che li aveva motivati, cioè l’elezione dei 24 consiglieri comunali che dovevano rappresentarne la sovranità.
Quando i soggetti politici costruiscono le liste dei candidati si suppone che puntino a renderle efficaci per la raccolta dei consensi, scegliendo persone che possano essere autenticamente rappresentative, per impegno civile, per professione, per cultura, per insediamento sociale, per esperienze associative, in grado cioè di dare alla rappresentanza istituzionale cittadina la massima qualità possibile, affidando così al voto degli elettori la scelta tra proposte credibili per competenza e per esperienza, e sollecitando nel contempo l’impegno nella competizione politica dei cittadini più autorevoli, non in senso elitario o gerarchico, ma autorevoli per aver condiviso nell’ambito sociale esperienze, idee, progetti concreti e, non ultimi, valori.
Il quorum del 5% che la legge ha previsto ha la funzione di evitare proprio le liste-civetta, presentate per fare numero ma non rappresentative di posizioni e di programmi riconoscibili.
Il responso delle urne invece, partendo dai dati che abbiamo citato, ha restituito il quadro di un consenso impietoso per la maggioranza dei candidati, di cui è senz’altro ammirevole la disponibilità che hanno dimostrato all’impegno, ma di cui è altrettanto evidente un insuccesso che, per le dimensioni che ha, non è certamente demerito di chi ha scelto di candidarsi, ma mancanza di responsabilità, quando non cinismo, di chi ha costruito le liste, puntando ad affastellare il numero maggiore di simboli, in qualunque modo, per schierare sulla scheda una rappresentazione di “geometrica potenza” che servisse ad accreditare la credibilità dei candidati sindaci del proprio schieramento.
Così la rappresentazione ha sostituito la rappresentanza, perfettamente in linea, in questo, con la politica-spettacolo che da alcuni decenni ha sostituito la politica delle idee e dei progetti di società.
In questo modo si immiserisce il confronto e il conflitto politico, che sono l’anima nobile della democrazia, in una competizione di parentele e reti amicali, strumentalizzando la disponibilità di tanti cittadini, che oggi saranno inevitabilmente demotivati e delusi, esposti ad un’esperienza frustrante, “bruciati” anche per un eventuale impegno futuro, perché sono stati usati, senza curarsi della responsabilità di formarli all’impegno politico con gradualità, con la preparazione, la maturazione delle competenze, la motivazione che può sostenere anche nella sconfitta, se nella battaglia politica si sceglie di stare al di là di se stessi e dei propri interessi.
I 274 candidati bruciati così, avevano maturato questa preparazione?
Sbriciolare la sovranità popolare disarticolando i soggetti politici soltanto per calcoli quantitativi al servizio dei leader rischia di indebolire pericolosamente la democrazia, di vanificare il senso della comunità, di scavare un solco ancora più profondo tra i cittadini e le istituzioni, tra i giovani e la politica. Rischia di demolirne la credibilità e alimentare una deriva populista il cui rovescio della medaglia può rivelare soluzioni autoritarie, a tutti i livelli.
La “democratura” che insidia oggi diversi paesi del mondo sviluppato ha bisogno di queste premesse per affermarsi.
Ora che la campagna elettorale è finita, riteniamo utile ragionare serenamente su questi dati e su queste responsabilità? O preferiamo accontentarci della democrazia di Barabba?