Figura di grande rilievo della gerarchia ecclesiastica medievale – di origine caltanissettese – è stata quella del cardinale Filippo (de)Ferrara. Abile mediatore e tessitore di trame a lui favorevoli.
Per molto tempo si è ritenuto ignoto il suo luogo di nascita, da collocarsi verosimilmente intorno alla metà del XIV secolo. Lo si è anche considerato nativo di Tolosa. Più tardi si scoprirà invece che la sua terra, e quella del padre Simone, è stata Caltanissetta. Non vi è però certezza sulle date che hanno segnato il corso della sua vita, ad iniziare quella del suo ingresso nell’Ordine Carmelitano, di cui diverrà Provinciale per la Sicilia.
La fama di studioso gli fa guadagnare la stima del duca Martino d’Aragona, reggente del Regno di Sicilia. Le sue doti di avveduto e sagace tessitore di relazioni si rivelano sin da questo momento.
Il duca infatti gli devolverà, il 12 settembre del 1395, un sostegno economico di quattro onze d’oro per i suoi studi in teologia, oltre – come Provinciale dell’Ordine – altre dieci onze per il restauro della chiesa carmelitana fuori le mura di Catania.
L’apparente generosità del duca invero derivava dalla circostanza, non sconosciuta al Ferrara, che entrambe le somme sarebbero gravate sul prezzo dovuto dal ribelle catanese Giovanni de Tarento per ottenere il perdono regio.
Il favore del duca si manifesta ancora ai primi del 1396 quando Martino gli conferirà la licenza per partecipare al capitolo generale di Piacenza. In linea con la propria politica di pieno controllo della Chiesa siciliana, durante il grande scisma, il duca manifesterà la volontà di non accettare altra nomina nella carica di Provinciale se non quella del Ferrara. Questo anche allo scopo di bloccare sul nascere la designazione di un altro provinciale.
Lasciando la Sicilia, per Piacenza, Ferrara delegherà le proprie funzioni al priore di Lentini, frà Nicolò de Marino, con la preventiva approvazione del duca. Confermato Provinciale dal capitolo di Piacenza, divenuto frattanto baccelliere, il 5 gennaio del 1397 sarà, con Galcerando Peralta e Giovanni Perollo, uno dei procuratori nominati per la sottomissione del ribelle Nicolò Peralta, conte di Caltabellotta, Sclafani e Calatafimi e signore di Caltanissetta.
Due giorni dopo a Trapani, nella chiesa del monastero carmelitano dell’Annunziata, Ferrara presterà – a nome del Peralta – omaggio e giuramento di fedeltà a re Martino il Vecchio, in procinto di salpare per prendere possesso del trono aragonese.
Il 13 febbraio dello stesso anno Martino il Giovane lo compenserà per la fruttuosa opera prestata concedendo a lui e al padre due vitalizi annui, rispettivamente di trenta e venti onze sulle tratte del porto di Girgenti.
Inoltre il re di Sicilia il 9 aprile del 1397 farà istanza a Papa Bonifacio IX, a nome proprio e del re d’Aragona, per conferire a Ferrara la prima prelazia vacante nel suo Regno.
Come è possibile vedere una carriera fortunata anche se conquistata in ragione delle doti di negoziatore e di garante di equilibri politici e religiosi del tempo.
Poiché il proseguimento degli studi e l’insegnamento lo trattenevano a Roma “racione lecture per ipsum in alma urbe incepte”, Ferrara nomina come suo vicario in Sicilia frà Giacomo de Petralia, con l’approvazione di Bonifacio IX e di Martino il Giovane.
Nel capitolo generale riunito a Firenze nel 1399 viene confermato Provinciale, conseguendo l’estensione dei suoi poteri anche sulla importante isola di Cipro.
Divenuto ormai magister in theologia, consegue ancora un altro alto Ufficio, venendo nominato reggente dello Studio romano e incaricato di promuovere presso la Curia pontificia per conto del suo Ordine il riconoscimento del culto del carmelitano siciliano Alberto degli Abati.
A questo punto inizia una fase problematica della sua vita e della sua carriera. Resasi vacante la sede episcopale di Patti per la morte di Francesco Ermemir, Ferrara ne diviene titolare per nomina regia.
Un accordo concluso il 15 giugno 1401 prevedeva che in ragione di tale nomina Ferrara avrebbe pagato al sovrano 200 onze in due rate, alla fine di agosto e di settembre. In cambio Martino il Giovane lo avrebbe immesso immediatamente nell’amministrazione della diocesi, tanto in spiritualibus, quanto in temporalibus, con la promessa che tale incarico sarebbe stato approvato dal re di Aragona, coamministratore del Regno di Sicilia.
Inoltre otteneva la ulteriore promessa che vi sarebbe stato l’intervento presso Bonifacio IX per ricevere le relative bolle apostoliche al fine di assicurarsi l’esonero da ogni tassazione entro il mese di agosto, trascorso il quale ogni obbligazione economica assunta dal Ferrara sarebbe cessata.
Come è possibile constatare le doti di tessitore di tele non gli mancavano. I fatti prendono però una piega inaspettata. Martino il Vecchio, il 30 luglio, dispone che l’amministrazione dell’episcopato di Patti venga affidata al priore di S. Andrea di Piazza, Giovanni Soriano. Il 19 agosto, essendo la diocesi ancora vacante, la riscossione dei redditi episcopali per volontà di Martino il Giovane rimane affidata a frà Nicolò de Marino, il carmelitano già vicario del Ferrara, il quale a sua volta delegava il prete Giovanni de Gangi.
Bonifacio IX in un primo tempo nomina vescovo un altro ecclesiastico ma successivamente accoglie le richieste siciliane. Il 26 giugno 1402 trasferisce ad Arborea il vescovo Paolo, da lui nominato ma mai entrato in possesso della diocesi di Patti.
Probabilmente il Ferrara, secondo una pratica corrente in casi analoghi, dopo avere ricevuto la diocesi in commenda dal re, era stato fatto eleggere dal capitolo episcopale. Il 3 maggio 1402 Martino il Giovane, raccomanda ai vicari episcopali il conferimento in commenda del beneficio riservato al vescovo di Patti, in attesa della venuta del Ferrara.
Questi era infatti ancora a Roma, dove il 30 giugno e l’8 luglio, come nuovo vescovo eletto di Patti, in parte adempiva, in parte si impegnava ad assolvere gli obblighi fiscali verso la Camera apostolica e il Collegio cardinalizio.
In tal modo il 25 luglio otteneva dal papa l’annullamento di tutte le concessioni e alienazioni di beni della mensa episcopale compiute dall’Ermemir, suo predecessore.
Alla morte dell’arcivescovo di Messina Filippo Crispo, il Ferrara ottiene dal re, il 12 gennaio 1403, anche le importanti funzioni vitalizie di maestro cappellano. La nomina compensava evidentemente il ritardo della conferma pontificia all’episcopato di Patti e la mancata esenzione fiscale.
Non era però venuta meno l’obbligazione di versare al re 200 onze, pari a 1.000 fiorini, in cambio dell’episcopato. Il 23 febbraio 1403 il Ferrara ha già pagato 123 onze in quattro soluzioni, tramite il vicecancelliere del Regno, Antonio de Bifaro.
Per la sua residenza il 3 aprile 1403 riceve in uso dal sovrano il castello di Patti. Il 10 marzo 1404 Martino il Giovane gli concede l’esenzione dalle gabelle del vino e delle carni per le esigenze di tutta la familia episcopale.
Pare però che il Ferrara approfittasse dell’esenzione per farne uso improprio, impadronendosi della gestione delle gabelle, sia a Patti, sia nelle altre località del distretto cittadino: Librizzi e Gioiosa Guardia.
Per tali ragioni interverranno i maestri razionali (una sorta di collegio dei revisori), ordinando il 24 settembre al vicesecreto della città di ripristinare i diritti del Fisco. Il provvedimento viene però immediatamente annullato dal re, il quale il 2 ottobre del 1404 dispone che il Ferrara non venga disturbato nelle sue pratiche, in mancanza di una decisione giudiziale.
Qualche mese dopo una nuova disputa oppone Ferrara al capitano della città, il messinese Giovanni Crisafi. Lo scontro è violento, perché vi rimarranno coinvolti diversi seguaci e fautori delle due parti, con conseguente strascico di liti in materia civile e criminale.
Il re interverrà nuovamente a protezione del vescovo contro i propri officiali e il 9 aprile del 1405 dispone che per tutto quell’anno le questioni riguardanti i servitori del Ferrara siano sottratte al capitano regio.
Il capitano (una sorta di procuratore della repubblica) vi si atterrà polemicamente con solerzia anche eccessiva, negando l’esecuzione a una sentenza pronunciata a petizione del Ferrara e trattenendo presso di sé il mandato di esecuzione, sicché il 14 maggio 1405 il re verrà costretto a ordinargli la consegna del mandato ed incaricare altri dell’esecuzione.
I contrasti prodotti dall’attività del Ferrara e le relative “altercacioni” coinvolgeranno anche l’ambito strettamente ecclesiastico. Il fatto di aver sostituito l’arcivescovo di Messina come delegato apostolico in una restituzione di beni della mensa episcopale di Lipari a un cittadino di quella città aveva costituito una irregolarità formale. Irregolarità sanata l’8 maggio 1405 da Innocenzo VII con la ratifica dell’operato.
Un contrasto giurisdizionale con la badessa di S.an Salvatore richiederà invece l’intervento del re, il quale il 20 febbraio 1406 ordinerà al capitano di Patti di raccogliere le dichiarazioni delle due parti.
Protesteranno i preti e il clero di Santa Lucia nella Piana di Milazzo, località vicina, ma fuori dal territorio della diocesi di Patti. Il Ferrara aveva infatti cercato di farli contribuire ugualmente, col pagamento di 5 onze, alla sovvenzione imposta dal re per la costruzione delle galee.
Questa volta Martino si pronuncerà però contro le pretese del Ferrara, anche se il 2 giugno successivo il sovrano gli riconoscerà il diritto consuetudinario a calare la tonnara nel mare di Roccabianca.
Il Ferrara sarà sempre protagonista di applicazioni normative e consuetudinarie abbastanza “particulari”, ricevendo sempre benevolenza, se non protezione, dalle alte cariche regie ed ecclesiali, grazie alle indubbie doti di intelligenza e di negoziazione da lui possedute.
Trasferito nel 1414 al più importante vescovado di Agrigento, nel 1421 il Papa Martino V lo eleva alla porpora cardinalizia, a riconoscimento della sua dedizione alla Chiesa, delle sue dotte pubblicazioni e dell’acume politico dimostrato in una fase storica difficile e complicata.
Morirà prima del marzo 1422. A lui rimangono attribuiti una epistola e alcuni sermoni (De festis deiparae virginis Mariae; De tempore; De sanctis). A Caltanissetta, rimane – una volta suggestiva – scalinata che dal corso Vittorio Emanuele porta alla sottostante via Paolo Emiliani Giudici.
Lì, poco prima della venuta di Garibaldi, il re borbone Ferdinando IV, avrebbe voluto il portico del mai realizzato teatro di Santa Sofia. L’unità di Italia sarà invece celebrata, qualche anno dopo, dalla edificazione del teatro intitolato alla Regina Margherita, contiguo all’attuale palazzo del Carmine, sede del comune.
l’immagine riproduce un dipinto di Francesco Guadagnolo in “Uomini Illustri di Caltanissetta” (2° fascicolo)